Ho deciso di chiudere l’anno condividendo il racconto con il quale ho passato il primo turno del Masterbook di Stefania Convalle – Edizioni Convalle.
Come anticipato nello scorso articolo, quello in cui ho condiviso la lettera d’amore scritta per il secondo turno, per festeggiare il mio approdo alla finale di questo bellissimo torneo ideato e condotto da Stefania, ho pensato di mettere qui sul mio sito tutti i testi che settimana dopo settimana mi hanno permesso di raggiungere questo inaspettato traguardo.
Ora che si è svolta anche la finale, posso dire di essermi piazzato al secondo posto generale. Per me un risultato di tutto prestigio, anche se non ci si può nascondere con la testa sotto la sabbia, arrivare al ballottaggio finale e perdere proprio l’ultimissima sfida un po’ fa rosicare. Ricordo comunque che i finalisti erano quattro, arrivati dopo quattro mesi di battaglie di scrittura incredibili.
Il racconto del primo turno: Rosa
Il primo turno, che risale ormai al mese di settembre, prevedeva una sfida tra otto autori che dovevano scrivere un racconto di max 500 parole ispirato da una fotografia scelta dall’organizzatrice. La foto ritraeva una donna di spalle, con il bottone della camicetta dietro al collo slacciato. Era una fotografia in bianco e nero molto evocativa. Poteva essere una cameriera, un’attrice, oppure…
Da parte mia ne è nato questo racconto forse un po’ audace e irriverente, a voi il giudizio.
Buona lettura.
ROSA
Caldo.
Sembra ancora di sentire la morsa della canicola che in quei giorni si avventò su di noi: testimone indesiderato di quelle ore di peccato e passione.
Affittammo un piccolo appartamento a due passi dal mare, all’imbocco di uno di quei budelli che caratterizzano i paesi della costa nei pressi di Genova.
C’erano un piccolo fornello sotto la finestra, un tavolino usurato dal tempo e un divano che trasudava vita e storie passate per quel locale. Un vaso in ceramica con la nostalgia dei fiori era l’unico vezzo che quelle quattro mura si permettevano.
E poi la camera.
Essenziale nel suo essere il complice perfetto.
Rosa arrivò la mattina del venerdì. La sua presenza diede fin da subito nuova linfa all’ambiente. Io la raggiunsi nel pomeriggio.
Per tre giorni ci fummo solo noi e il rumore del mare in lontananza, alternato a quello di un ventilatore che dava sollievo ai nostri corpi vestiti soltanto del caldo di luglio.
È l’inferno, ripeteva Rosa.
Quello che ci meritiamo, le rispondevo io.
I nostri sensi si univano a ripetizione mentre le nostre vite e le nostre esistenze soffocavano nei sensi di colpa e nella vergogna.
Ma quanto può essere sbagliato agire in nome di ciò che ci rende felice? A che punto sta il confine tra la soddisfazione e la legalità di quel piacere? Che prezzo morale ha lo star bene?
Rosa era il mio bene.
Lo è stata per quei tre giorni.
Un solo e unico weekend desiderato e bramato per una vita intera. Sognato a ogni raduno di famiglia, nascosto negli sguardi colpevoli di quei pranzi in cui si è seminato il frutto che in quei giorni abbiamo avidamente raccolto e succhiato.
Sei mio cognato, diceva, mentre mi dava le spalle e si slacciava il bottone del colletto di quell’abito nero che la rendeva irresistibile.
Sei mia, le rispondevo appoggiando il mio corpo al suo e sfiorandole il collo con le labbra.
Sapeva di tutto quello che desideravo.
Poi scioglieva i capelli e si lasciava andare al mio volere. Al peccato.
Una volta. E poi un’altra. E poi ancora.
Lo specchio al centro del piccolo armadio, rotto sull’angolo destro, rifletteva i nostri respiri lussuriosi e l’ombra ingombrante delle nostre coscienze sporche.
Sporche e appagate.
Il bene e il male convivevano in quella stanza come vecchi compagni che per mano si erano trascinati fino alla domenica sera.
Fu lei ad abbandonare quel luogo per prima.
Io restai a respirare quell’aria piena di vizio e amore per qualche momento in più.
Poi chiusi a tre mandate la porta in legno verniciata d’azzurro e lasciai le chiavi sotto il vaso del cactus sul davanzale della finestra.
Sentii le spine pungere il cuore.
Infilai le mani in tasca, accesi una sigaretta e mi rifugiai in un bar.
Due bicchieri mi furono amici e lavarono lo sporco incrostato sulla mia anima.
Per il momento.
Poi mi mossi in direzione del porto.
La mia nave salpò quella notte stessa.
© Stefano Buzzi – Tutti i diritti riservati